Argentina/Germania
128 minuti (Parte 1) + 132 minuti (Parte 2)
Regia Laura Citarella
Scenaggiatura Laura Citarella e Laura Paredes
Fotografia Agustin Mendilaharzu, Inés Duacastella, Yarará Rodríguez
Suono Marcos Canosa
Montaggio Miguel de Zuviría, Alejo Moguillansky
Produzione Ingrid Pokropek, Ezequiel Pierri
Scenografia Laura Caligiuri
Costumi Flora Caligiuri
Musica Gabriel Chwojnik
Produzione El Pampero Cine (Ar)
Coproduzione Grandfilm (Ger)
Interpreti Laura Paredes, Ezequiel Pierri, Rafael Spregelburd, Cecilia Rainero, Juliana Muras, Elisa Carricajo, Verónica Llinás
Sinossi Laura è scomparsa senza lasciare traccia a Trenque Lauquen, una piccola città della pampa argentina dove ha svolto per diversi mesi una ricerca botanica. I due uomini che la amano si mettono in viaggio per cercarla. Perché́ se n’è andata? Questa fuga improvvisa diventa il nucleo di una serie di misteri: la sparizione di Laura s’intreccia al segreto nascosto nei libri di una biblioteca, al carteggio amoroso di un’altra donna anch’essa scomparsa molti anni prima; ai misteriosi fiori gialli; al mistero della laguna di Trenque Lauquen e alla sua comunità sconvolta da un evento soprannaturale…
In questa storia, che come un tesoro contiene molte altre storie, la ricerca di sé e la ricerca dell’altro sono costantemente intrecciate, mentre vita sognata e vita vissuta coincidono. Ma non è un film filosofico: è un film d’amore e d’avventura, dove l’esplorazione di una città argentina è solo l’occasione per scandagliare più a fondo nell’animo umano. Il mistero che avvolge la protagonista trasforma il film in un romanzo visivo in cui perdersi, un’ode alla ricerca e alla bellezza.
IL VOLTO DI LAURA
di ANDREA INZERILLO
Una donna è scomparsa, due uomini la cercano. Fin qui sembrerebbe una semplice variazione de L’avventura di Antonioni e in parte lo è, dichiaratamente. Ma è anche soltanto l’inizio di Trenque Lauquen, uno dei film più sorprendenti degli ultimi anni, di una regista che si chiama Laura Citarella e che dalla Pampa argentina è riuscita a fare dell’esplorazione di un luogo un mondo, dei suoi protagonisti degli eroi: di un film, la sintesi di un intero universo.
Di questo film – che nel dare corpo allo smarrimento e al desiderio di libertà mi sembra oggi il più importante della contemporaneità – e di Laura Citarella – che incarna lo spirito di un cinema che è indipendente per intrinseca necessità e non per statuto, costrizione o posizionamento – proverò a dire qualcosa nelle righe che seguono, a partire dal desiderio (non celato) che l’analisi sia propizia a una maggiore diffusione dell’opera. La prima sensazione che bisognerebbe restituire al lettore è forse quella, tutta fisica, del respiro: guardando Trenque Lauquen si respira, e si sospira, perché si avverte in maniera tangibile che esiste una linea vitale e minoritaria che continua a pensare il cinema come arte autenticamente narrativa e popolare senza arrendersi all’idea che esistano regole e dettami precostituiti, anzi: lavorando per reinventare costantemente forme ed economie capaci di costruire un’alternativa ai ritmi industriali.
Ciò significa, concretamente, lottare per concedersi il lusso di realizzare un film in sei-sette anni; garantirgli il tempo di cui ha bisogno; pensarne la visione come esperienza e consentirsi anche, se è il caso, di sbagliare. Ma soprattutto: assottigliare fino a renderla quasi impercettibile la linea di separazione tra la vita e l’opera, facendo di quest’ultima il luogo in cui tutte le vite che viviamo – autentiche o sognate, temute o desiderate – possano trovare spazio. È un’operazione entusiasmante perché rischiosa, dal momento che porta con sé la possibilità di un fallimento non solo artistico ma esistenziale, e proprio per questo appare tanto più preziosa: unica ed esemplare nello stesso tempo.
Trenque Lauquen è il nome di una cittadina a poco meno di 500 km da Buenos Aires, per alcuni ormai indistinguibile dal film che ne porta il nome e ne incarna lo spirito. Non perché la città sia o meno rappresentata nel film – questione di scarso interesse – ma perché Laura Citarella ne ha già fatto uno dei luoghi del cinema mondiale, come Michael Curtiz con Casablanca o David Lynch con Twin Peaks. Di cosa parla Trenque Lauquen? Difficile dirlo, e nello stesso tempo facilissimo. Di un allontanamento e di una ricerca, e dell’attraversare un luogo che è il luogo, il mondo, un mondo nel quale si entra senza averci mai davvero fatto ingresso e si esce senza che forse sia davvero possibile andare via.
Trenque Lauquen significa “laguna rotonda”, ed è un girare in tondo e un andare a zonzo quello che porta i personaggi a muoversi negli spazi per andare alla ricerca di qualcosa di indefinito che è innanzitutto una ricerca di sé. Il loro stesso movimento è caratterizzato da un’incertezza che anche gli spettatori condividono: cosa guardare? Dove guardare? Ci si trova così a guardare la città, le sue case e i suoi alberi, i boulevard e le strade alla ricerca costante di segni, piste, punti di riferimento. Il film è fatto di specchi e riflessi, andirivieni, immagini che duplicano e attraversano le immagini come a condensare una pluralità di livelli di lettura in una stessa inquadratura. E l’incanto del racconto, che si arricchisce di capitolo in capitolo, non sarebbe lo stesso senza la profonda fiducia nel potere evocativo della parola, che moltiplica le possibilità di accesso e offre allo spettatore l’occasione di perdersi nel film, permettendo non soltanto di immaginare l’avventura ma di viverla in prima persona, di essere per qualche tempo insieme ai personaggi l’avventura stessa.
Questa dimensione della visione, teorica e insieme assai materica, si raddoppia costantemente in una dimensione temporale (o atemporale): si tratta di un film che esplora con metodo la dimensione dell’attesa. L’attesa di (identificare e) risolvere il mistero, l’attesa di un figlio o di una figlia, ma anche l’attesa in macchina, l’attesa di un segnale, l’attesa di trovare la pianta mancante, l’attesa di una lettera. L’attesa di scoprire che il tempo che passa può essere utile a comprendere meglio gli elementi del mistero, ma che è anche possibile che il mistero si riveli solo uno stratagemma e si debba constatare che lo scopo del passare del tempo (insieme) non è altro che il passare del tempo (insieme). In questa valorizzazione della relazione (tra due, tra molti) il film mostra l’influenza del penultimo lungometraggio di Citarella, Las poetas visitan a Juana Bignozzi (2019, co-diretto con Mercedes Halfon), che della dimensione del gruppo – e di altri elementi puntuali che transitano tra i due film, girati negli stessi anni – è l’emblema forse più esplicito. Se la costruzione di un tempo non finalizzato ad altro da sé e la sua sottrazione alla produttività lo accomuna a Las poetas, Trenque Lauquen riesce a spingersi ancora più lontano verso l’esplorazione di una singolarità che prescinde dal biografico, o di una specie di biografismo non personale che trascina l’io nella finzione, rivendicandone con forza le possibilità.
L’essenziale del film risiede allora negli spostamenti e nelle transizioni, narrative e stilistiche, che volgono sempre altrove l’orizzonte e prolungano il piacere del racconto. Un esempio tra tanti: l’uso delle lettere nella prima parte, piattaforma per costruire la possibilità di un amore tra i personaggi di Chicho e Laura, è il modo in cui Citarella fa della letteratura, all’interno di un film, una possibile traduzione della vita. La proiezione della storia d’amore tra Paolo e Carmen attraverso le lettere che i due si spediscono diventa l’occasione perché l’amore tra Chicho e Laura possa prendere forma, ma rappresenta nello stesso tempo una delle più intense dichiarazioni d’amore mai viste sullo schermo, quella tra la stessa Laura Citarella e suo marito Ezequiel Pierri, che interpretano i personaggi di Carmen Zuna e Paolo Bertino.
Sono tre livelli condensati in poche immagini, amplificati dalle dissolvenze incrociate, potenziati infinitamente dall’intreccio tra parola e immagine, finzione e documentario, in una indiscernibilità volutamente perseguita: una dichiarazione d’intenti, un piccolo manifesto che rivela come nel cinema e attraverso il cinema la vita trovi il suo compimento. Lo spostamento, la transizione, l’amore: l’ossessione di Laura diventa l’ossessione di Chicho; il mistero di cui lei è l’unica testimone diventa l’enigma di cui lui non può non occuparsi e che vuole contribuire a risolvere. L’amore, insomma, è questione di complicità.
Di mistero in mistero, esplorando spazi ben precisi (la radio, il giornale) e rievocando sonorità di un passato recente, il film avanza scoprendo ulteriori strati e altri personaggi, aprendo progressivamente nuove porte e dialogando esplicitamente, tra le altre cose, anche con il pensiero femminista e con il cinema di genere. Ma quello di cui ci si rende conto è che il mistero più grande, il maggiore dei tanti centri d’interesse del film, è in fondo rappresentato dall’attrice protagonista, Laura Paredes, che comincia a ritrovare sé stessa quando decide di impadronirsi della propria vita e di passare del tempo con la coppia di donne interpretate da Elisa Carricajo e Veronica Llinás. Un tempo sempre più rarefatto, minimale, silenzioso: come se la dimensione della parola andasse verso un esaurimento e si trasformasse più in direzione della luce che del concetto.
Insieme a Mariano Llinás, suo socio del gruppo (con Alejo Moguillansky e Agustín Mendilaharzu) che prende il nome di El Pampero Cine, Laura Citarella ha contribuito nel corso di questi anni a fare di Laura Paredes il volto – enigmatico, incerto, impastato di curiosità e di gioia – che incarna una certa idea di cinema. Il percorso che comincia con Ostende (2011) e prosegue in Trenque Lauquen (2022) trova nel prologo di La flor (2018) una giusta descrizione quando il regista Mariano Llinás annuncia agli spettatori che si tratta di un film su quattro attrici – Laura Paredes, Valeria Correa, Pilar Gamboa, Elisa Carricajo – e in qualche modo di un film per loro quattro.
Nello scambio artistico tra Laura Paredes e Laura Citarella (entrambe co-sceneggiatrici di Trenque Lauquen; entrambe attrici del film), nel divenire una alter ego dell’altra e nella fusione delle storie che ci travolgono e ci avvolgono seguendo il dipanarsi di un destino comune, si ha la percezione di assistere al costituirsi di un grande sodalizio artistico. Di fronte al suo quarto lungometraggio sembra evidente che la forza del cinema di Laura Citarella – nata per caso o per destino lo stesso giorno di Agnès Varda – risiede nel difendere la dimensione artistica del cinema tenendo uniti gioco e mistero, libertà e invenzione, indagine e rischio. Questa libertà, questa vitalità così rare nel cinema contemporaneo, assumono da più di dieci anni a questa parte le fattezze del volto di Laura Paredes, sintesi incarnata del miglior cinema argentino, metafora vivente di un’avventura ancora possibile.
(Pubblicata su Fata Morgana Web)